Iacopo è un giornalista italiano che vive negli Stati Uniti. Lavora da 4 anni per l'emittente radiotelevisiva Voice of America. Originario di Fermo, al termine del percorso accademico muove i primi passi come reporter di cronaca per una testata locale, ma si rende conto ben presto che per fare il salto di qualità deve agire." Ho capito che l'unico modo per smettere di vivere il giornalismo come un hobby sottopagato era andare all'estero", mi racconta. "Ho puntato al massimo. Negli States, se sei bravo, ti viene riconosciuto".
Raccontaci un po' di te, da dove vieni e qual è il tuo percorso di studi in Italia?
Mi chiamo Iacopo Luzi, con la I, perché mio padre credeva che la J fosse troppo americana come lettera e quindi, per un nazionalista come lui, non era accettabile che suo figlio si chiamasse così. Al di là di questo, io ho 32 anni, sono originario di Fermo, una piccola provincia delle Marche, e sono un giornalista perché, quando sognavo di diventare un attore a Roma in quinta superiore, i miei professori non erano dello stesso parere e quindi decisero di bocciarmi all'esame di maturità con un bel 56. Credo che volessero un bis…
Tuttavia, una volta superato lo scoglio delle scuole superiori (non avevo la testa giusta a quei tempi) sono approdato all'università Iulm di Milano, dove ho ottenuto una laurea triennale in Interpretariato e Comunicazione, il master Micri in Relazioni Internazionali e la successiva specialistica (che ora non esiste più) in Relazioni Internazionali e Studi culturali. Diciamo che dopo aver perso tempo tanto al Liceo, ho messo il turbo e ho ingranato, recuperando con gli interessi. Lo stare alla Iulm, imparare nuove lingue come lo spagnolo e l'arabo, studiare materie che mi appassionavano veramente, mi ha dato l'ispirazione per tentare la carriera da giornalista e quindi, iniziando con la cronaca locale, ma anche realizzando alcuni reportage in giro per il mondo, da freelance semi-pagato (quando andava bene), in posti come Ucraina, Iraq e Australia, mi sono fatto le ossa. Eppure, non è facile essere giornalisti in Italia…
Cosa ti spinse, nel 2015, a lasciare l'Italia per trasferirti negli Stati Uniti d'America?
La necessità di trasformare il giornalismo in un vero mestiere, con un salario dignitoso, senza dover fare affidamento su risparmi di famiglia o lavori serali per mantenermi. In poche parole: smettere di vivere il giornalismo come un hobby sottopagato (quando ti va bene), che è una costante in Italia oggigiorno, dove troppi reporter vivono per la “visibilità” o arrabattandosi in mille modi pur d'arrivare alla fine del mese. Io non volevo più questo. Ero nauseato. E dopo averlo assaporato per qualche anno, ho capito che l'unico modo era andare all'estero e, se dovevo farlo, tanto valeva puntare al massimo, il top del top, per il mondo del giornalismo: gli Stati Uniti. Tuttavia sapevo che entrare in questo pianeta era difficile, c'è diffidenza per gli stranieri, quindi ho iniziato a fare domande per varie scuole di giornalismo. Alla fine, la Northwestern University di Chicago mi ha offerto una borsa di studio e allora mi sono convinto a partire. Inoltre, i miei genitori si sono tanto sacrificati per me, lo riconosco, pur di aiutarmi, ma è stato l'inizio del mio cammino negli States.
Da dove nasce la tua passione per il giornalismo?
Il desiderio di non cadere nella monotonia e nella ripetitività. Fare le stesse cose tutti i santi giorni. E il giornalismo, con le sue mille storie diverse, i fatti, le persone che incontri, le loro vite incredibili, le breaking news, è un mondo dove non ti stanchi mai. E' pesante, fai orari assurdi molte volte, salti feste e dimentichi compleanni, le persone non ti capiscono e ti abbandoneranno, ma alla fine della giornata, sai di aver creato qualcosa di unico. Inoltre, con le nuove tecnologie, una storia può diventare di tutto, se sei capace: un articolo, un video, una galleria fotografica, un'infografica, un reel o una storia di 15 secondi su Instagram. Impossibile annoiarsi.
Di cosa ti occupi e che gavetta hai fatto per ricoprire il tuo ruolo attuale?
Io sono un giornalista televisivo per la sezione spagnola di Voice of America, questo big media americano con sede a Washington che, voluto dal Congresso degli Stati Uniti 79 anni fa, porta quotidianamente informazione libera e indipendente in 42 lingue in giro per il mondo, ovunque ci sia censura e regimi dittatoriali, dal Venezuela alla Corea del Nord. Mentre, per la sezione inglese, produco delle video storie di approfondimento, come quelle che qui chiamano “features stories”. Quotidianamente seguo la Casa Bianca, il Congresso e il Dipartimento di Stato, ma se c'è un uragano o un'altra calamità naturale, sono quello che mandano in prima fila.
La gavetta? Ho incominciato dalla cronaca locale della mia città, Fermo, dove ho imparato a fare di tutto, dal coprire la sagra di paese fino all'omicidio più efferato. Questo mi ha insegnato l'arte del sapermi adattare e poter coprire qualsiasi tipo di notizia e storia nel più breve tempo possibile. Poi il resto è venuto da sé, ma è stata la palestra che mi ha aiutato anche in giro per il mondo e in America, dove, dopo l'università e qualche porta chiusa in faccia (difficile che ti offrano un lavoro negli States se non hai i documenti in regola, tipo il permesso di soggiorno) sono approdato a Voice of America: inizialmente come stagista non pagato ma, grazie alla mia conoscenza delle lingue, sono riuscito ad ottenere un posto di lavoro e un visto J-1. Oggi sono un senior journalist con quasi 4 anni di esperienze alle spalle.
Come si svolge una tua giornata tipo al lavoro?
Quotidianamente io produco video storie sulla politica americana per la nostra audience in America Latina. Dallo script iniziale fino al video montato e pronto per andare in onda. La mia divisione, chiamata Voz de América, fa 60 milioni di spettatori alla settimana, dal Messico fino alla punta dell'Argentina, quindi cerchiamo di raccontare ciò che succede negli States, nella regione latinoamericana e nel mondo attraverso i nostri programmi nella maniera più chiara e semplice possibile.
Io faccio parte del team che si occupa del telegiornale delle 17, chiamato “El Mundo al Dìa”, quindi dalle 8 di mattina fino alle 16 bisogna correre per produrre la storia che ti assegnano, che sia l'impeachment di Trump o una nuova nomina del gabinetto presidenziale di Biden.
In aggiunta a questo, la Voice of America offre anche servizi di corrispondenza giornalistica alle nostre affiliate di radio, web e TV sparse in tutta America Latina (sono quasi 500), quindi spesso faccio collegamenti dal vivo come corrispondente per questi media latinoamericani sulle ultime nuove che succedono a Washington o, in generale, nel paese. A volte, anche in giro per il mondo o nella regione di nostra competenza.
Secondo te, gli States offrono più opportunità di carriera ai giovani laureati stranieri rispetto all'Europa?
Io credo che, da italiani, l'Europa offra migliori opportunità, perché nella Comunità Europea non servono permessi o visti per poter lavorare. Morale della favola: trovare un lavoro è più semplice. Certo, la Brexit ha tolto dalla lista un paese come il Regno Unito, che offriva immense opportunità a chiunque ci andasse, ma sono convinto che l'Europa continui ad essere più aperta degli Stati Uniti. Qua, alla fine della fiera, se non hai un visto che sia valido o un permesso di lavoro, non c'è quasi nessuno che ti assuma. Io sono stato fortunato, perché la Voice of America fa parte del governo americano, quindi è stato semplice per loro offrirmi un visto. Sono stata un'eccezione, non la regola. Mettiamolo bene in chiaro.
Tuttavia, per un' esperienza di lavoro senza troppi grilli in testa, gli States non hanno paragoni. Rispetto all'Europa, per tante cose, stanno avanti di dieci anni come mentalità e flusso di lavoro.
Come giornalista, io la chiamo spesso, per far capire alla gente: la Champions League del giornalismo. Ma è difficile rimanerci, quindi consiglio a tutti di non crearsi troppe aspettative, alla fine dei conti.
Maggiore meritocrazia negli USA che in Italia, cosa ne pensi?
Senza ombra di dubbio in America. Negli States, se sei bravo, ti viene riconosciuto. Difficile incontrare il “figlio di” o “il raccomandato di tal de tali” che ti passa avanti, come spesso succede in Italia, e difficile che una persona venga assunta perché è simpatica o ruffiana. Gli americani sono molto pratici, quindi le manfrine lasciano molto il tempo che trovano. Allo stesso tempo, qui, non si può sgarrare più di tanto: se sbagli, sei fuori. Il mercato del lavoro è così competitivo e accelerato, che bastano due secondi per venire messo alla porta. E già ci sarà qualcuno pronto a prendere il tuo posto.
Considerando i sacrifici e l'impegno che metti a livello professionale e la qualità della vita che ti offre Washington, il gioco vale la candela?
A livello professionale, assolutamente sì. Quello che faccio qui a Washington sarebbe impossibile in qualsiasi altro paese, specie per uno straniero. Il gioco vale la candela, ma i rapporti interpersonali, il costo della vita, la qualità della quotidianità non potranno mai essere comparabili con ciò che si ha in Italia. Magari se fossi di un altro paese, penserei che gli States sono il paradiso, ma non lo sono. Sono italiano e so bene a cosa ho rinunciato e cosa ho lasciato, quando mi sono trasferito. Senza contare che se uno ha radici profonde con la propria terra di origine e le sue persone, è difficile stare così lontani senza sentire il magone un giorno sì e quell'altro pure. Questo l'ho capito con il Covid-19: essere in ansia continua e avere bisogno di 20 ore minimo per poter ritornare, in caso d'emergenza. Non è una bella situazione, per questo sono sicuro che gli States non saranno per sempre casa mia, ma per ora me la godo.
Quali sono i tuoi progetti per il futuro? Vorresti tornare in Italia?
Sì, quando riterrò che gli States non avranno più da offrirmi niente, quando la nostalgia sarà troppa, farò le valigie, ringrazierò tutti e tornerò in Italia. Come dice un mio caro amico: chi non sente il richiamo di casa, è uno “scappato di casa”. Magari, in Italia, continuerò a fare il giornalista, lo spero, ma non sono troppo ottimista. Sarebbe bello insegnare giornalismo da qualche parte per formare le nuove leve, considerando come oggi il livello del giornalismo in Italia sia bassissimo: i giornalisti di domani sono l'unica speranza per evitare la morte di una professione che oggi campa di click, fake news non verificate e titoli sensazionalisti pur vendere qualcosa in più. Tutto ciò a discapito della qualità, che ormai è quasi una chimera.
Poi magari torno, non mi va di fare più il giornalista, e cambierò di nuovo vita. L'ho già fatto una volta, potrei farlo di nuovo. Staremo a vedere: in fondo il futuro è bello perché, essendo incerto, può diventare tutto ciò che vuoi, se ci credi.