In una situazione di crisi, gli immigrati sono i primi a pagarne le spese. Nel 2020 si era addirittura messa in discussione la mobilità internazionale. Per alcuni, l'era in cui le persone espatriavano per lavoro era giunta al capolinea, sottolineando che questa tendenza avrebbe favorito l'impiego di giovani professionisti locali. Ma è davvero così?
Espatrio, occupazione giovanile locale e mercato del lavoro internazionale
In senso lato, un espatriato è una persona che lascia il suo Paese per vivere, e quindi immigrare, in un altro Paese. L'espatriato, quindi, è anche un immigrato. Quando subentrando momenti di crisi economica, aumento della disoccupazione, violenze o instabilità, gli espatriati sono spesso presi di mira. Non esiste però una relazione tra immigrazione e calo dell'occupazione giovanile. In realtà, è vero il contrario. I giovani, sia locali che espatriati, si spostano di più. Si formano all'estero attraverso scambi universitari, Erasmus o altri programmi di mobilità internazionale.
I Paesi con una lunga storia di immigrazione come il Canada, l'Australia e gli Stati Uniti lo hanno capito. La mobilità internazionale è necessaria per rilanciare l'economia. Il mercato del lavoro si è da tempo internazionalizzato. Gli amministratori delegati delle grandi aziende americane sono per lo più immigrati. La mobilità permette la circolazione delle idee e la creazione di nuovi progetti. In tutti i campi, le innovazioni sono il risultato di collaborazioni tra diverse nazionalità. L'immigrazione è quindi un vantaggio per il mercato del lavoro e per il sistema economico.
Ma la questione della migrazione resta spesso impantanata in questioni di identità, che mettono in secondo piano i vantaggi economici. L'economista Philippe Legrain riassume bene la situazione nel suo libro Them and us: "L'immigrazione è indiscutibilmente, ad oggi, l'argomento più controverso nei Paesi occidentali. Le nostre società (relativamente) aperte e liberali sono minacciate da persone che incolpano gli stranieri in generale, e gli immigrati in particolare, di tutto ciò che secondo loro non va nelle nostre vite e nelle nostre società".
Espatrio e strategie di governo
In Kuwait, nazione composta per la maggior parte da stranieri, il Governo ha deciso di schierarsi con la popolazione locale. Anche in Kuwait, il "problema" degli espatriati si ripresenta ad ogni crisi, e quella del Covid non ha fatto eccezioni. Secondo il Consiglio del Servizio pubblico, i giovani kuwaitiani sono i primi a rivendicare le posizioni tradizionalmente occupate dagli stranieri. L'Ufficio di Statistica del Kuwait fa sapere che il 54,6% degli impiegati presso il Ministero della Salute è straniero. All'Istruzione si parla di un 20%, che scende allo 0,9% alla Difesa, e allo 0,8% presso il Ministero del Petrolio, che ha smesso di assumere stranieri durante la pandemia. Queste percentuali sono destinate a diminuire con il passaggio alla kuwaitizzazione. Il problema è complesso. Da un lato, i giovani autoctoni lamentano il fatto che gli espatriati occupino posizioni di potere, dall'altro gli stranieri si sentono ingiustamente discriminati.
Gli Emirati Arabi Uniti (EAU), che contano ancora più stranieri sul territorio (90% della popolazione), hanno una politica diversa. Si stanno impegnando al massimo per diventare un punto di riferimento per il mercato del lavoro internazionale. Consapevoli che gli immigrati sono la linfa vitale della nazione, aprono loro tutte le porte, comprese quelle dei Ministeri.
Un conflitto tra "locali e espatriati"?
Gli espatriati minacciano l'occupazione dei giovani? Così la pensa Eliane Tevahitua, rappresentante del partito politico dei Tavini nell'Assemblea Polinesiana (gruppo pro-indipendenza). Tra la Francia e le sue collettività d'oltremare ci sono delle questioni irrisolte. Eliane Tevahitua è preoccupata per l'arrivo regolare (e in aumento dopo il Covid) di "espatriati dalla Francia", che verrebbero a occupare posizioni di rilievo a discapito dei locali. La Ministra del Lavoro polinesiano, Virginie Bruant, non è assolutamente d'accordo e sottolinea che la Polinesia fa parte della Francia. Chi viaggia all'interno del proprio Paese non è un immigrato. La Ministra ha glissato su una questione che crea dissapori: gli abitanti del luogo hanno l'impressione di essere trattati con meno riguardi.
Intorno al 2010, la Polinesia è stata definita una "destinazione di punta per il turismo, ma un incubo per i giovani disoccupati". Il Covid ha riportato in essere la questione. Nel 2021, la Polynesian Water Company ha sviluppato un programma di assistenza ai giovani. Ogni anno ne assume circa 100 con contratti sovvenzionati o stage, per individuare i futuri talenti locali. I sostenitori dell'occupazione giovanile chiedono che più aziende si muovano in questo senso. Non mettono in discussione i benefici dell'immigrazione, ma vorrebbero piuttosto riequilibrare le forze dando lavoro a chi è già sul posto, prima di andare a cercare gli stranieri. Questa è la politica delle grandi potenze in materia di immigrazione. In Canada, Stati Uniti o Francia, l'azienda deve prima giustificare l'impossibilità di trovare un dipendente locale per la posizione offerta, prima di ricorrere a manodopera straniera.